Deep sea mining, la nuova minaccia per gli oceani: danni ambientali visibili anche dopo 40 anni
Uno studio condotto nella Clarion-Clipperton Zone conferma: il deep sea mining ha effetti devastanti e persistenti sulla biodiversità.
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AA migliaia di metri sotto la superficie dell’oceano, dove regnano buio, silenzio e temperature glaciali, vivono creature affascinanti e misteriose: granchi yeti, coralli d’acqua fredda, anemoni trasparenti. Questi ecosistemi si sono evoluti lentamente nel corso di milioni di anni, adattandosi a condizioni estreme e mantenendo un equilibrio delicatissimo. Oggi però sono minacciati dal deep sea mining, ovvero l’estrazione mineraria in acque profonde.
Grandi macchine industriali vengono progettate per setacciare i fondali marini alla ricerca di metalli preziosi come cobalto, nichel, manganese e rame, richiesti per la produzione di batterie, veicoli elettrici, elettronica e armamenti. Un’attività che, se autorizzata su larga scala, rischia di causare danni irreversibili alla biodiversità marina.
Uno studio conferma: i danni del Deep sea mining possono durare decenni
Un nuovo studio pubblicato su Nature e condotto da ricercatori del National Oceanography Centre di Southampton e del Natural History Museum di Londra ha analizzato gli effetti di test sperimentali di estrazione mineraria condotti nel 1979 nella Clarion-Clipperton Zone (CCZ), una vasta area dell’Oceano Pacifico compresa tra il Messico e le Hawaii.
L’area, oggi al centro delle mire dell’industria mineraria internazionale, presenta ancora tracce visibili delle attività svolte oltre 40 anni fa: solchi profondi nel fondale, assenza di noduli polimetallici e, soprattutto, una biodiversità significativamente ridotta rispetto alle zone circostanti. Sebbene si notino lievi segni di recupero, la ripresa degli ecosistemi è lentissima.
I ricercatori hanno osservato che l’estrazione dei noduli – vere e proprie “patate” di minerali che si formano in migliaia di anni – provoca disturbi meccanici e compattazione dei sedimenti, oltre alla perdita dell’habitat per molte specie bentoniche. Inoltre, il passaggio dei veicoli di raccolta solleva nubi di detriti che si propagano anche in zone limitrofe, estendendo il danno oltre l’area di scavo.
Una corsa all’oro sottomarina spinta da interessi industriali
Nonostante gli allarmi della comunità scientifica, numerose aziende stanno facendo pressione per ottenere il via libera allo sfruttamento dei fondali oceanici. Tra queste, la canadese The Metals Company, ma anche aziende italiane come Saipem e Fincantieri hanno espresso interesse per progetti nel Mediterraneo.
Attualmente il deep sea mining non è ancora autorizzato dal diritto internazionale, ma i negoziati in corso presso l’International Seabed Authority (ISA) stanno cercando di definire un quadro normativo. Intanto, alcuni Paesi iniziano a muoversi: la Norvegia ha già approvato l’apertura alle attività estrattive in un’area dell’Artico grande quanto l’Italia, tra le isole Svalbard e Jan Mayen.
Le conseguenze del deep sea mining non si limitano alla distruzione degli habitat marini. Secondo gli scienziati, l’attività estrattiva potrebbe interferire con i processi di sequestro del carbonio svolti dagli oceani, contribuendo ad aggravare la crisi climatica globale. Non solo. L’inquinamento luminoso e acustico causato dalle operazioni potrebbe disorientare specie migratorie come balene, tonni e squali, alterando i loro comportamenti e le rotte naturali.
Serve una moratoria globale prima che sia troppo tardi
Alla luce delle evidenze scientifiche e della fragilità degli ecosistemi profondi, molti esperti e organizzazioni ambientaliste chiedono una moratoria internazionale sul deep sea mining, per impedire l’inizio di attività estrattive prima che siano stati condotti studi approfonditi sui rischi reali. Il caso della Clarion-Clipperton Zone dimostra che anche un singolo esperimento può lasciare ferite ancora aperte dopo 44 anni. È il momento di agire con responsabilità e visione a lungo termine, per proteggere il patrimonio nascosto degli abissi oceanici.